martedì 1 novembre 2016

12 Lap - Grembo






I live my life for you
Think all my thoughts with you
Anything you ask I do, for you
And only you
I touch your lips with mine
But in the end
I leave it to the lords
Leave it in the lap of the Gods
What more can I do
Leave it in the lap of the Gods
Laaaaap of the Goooods….

Cantavano in coro Haru e Jasper.
La canzone dei Queen scorreva come molte altre erano rimbalzate tra le mura dello scantinato/laboratorio di Haru mentre tra provette, centrifughe, misurini e fornelli i due giovani stavano ultimando la preparazione della ricetta definitiva della loro sostanza, della loro creazione.
Erano eccitati e sicuri di ciò che stavano facendo. Lavoravano in camice bianco allegramente cantando, ballando e fantasticando riguardo le potenzialità della sostanza, Pensa la miriadi di applicazioni in campo medico…nella psicoterapia, disse Haru, Pensa scopare nei sogni, disse Jasper.
What more can I doooooo???
Cantavano ancora. Per poi bloccarsi immediatamente. Haru si fece indietro allargando teatralmente le braccia e lasciando spazio a Jasper; era immobile come una statua mentre Jasper inclinava il proprio asse verso una provetta con un contagocce in mano, Ed eccole: gocce di estratto di genio jasperiano a dar vita…
È stata un’ottima idea Jasper.
…certo perché allo stesso tempo stabilizza e sballa.
Sballa?
Sì non preoccuparti, la tua camomilla continuerà a essere completamente atossica.
Camomilla? Non hai detto questo la prima volta che l’hai provata.
Puff…robetta. I nostri ultimi sogni sono le prove che questa ricetta è la definitiva. La tua idea, il tuo slancio, non lo nego, è stato geniale, ma la parvenza di lucidità inerte e inerme che avevi ottenuto sono niente rispetto al controllo che gli ho aggiunto. Prima eravamo svegli dentro un sogno, spettatori. Ora possiamo diventarne gli attori, i protagonisti, i registi, gli dei.
Non stai correndo troppo?   
Non hai detto questo così la prima volta che l’hai provata, rispose Jasper facendo l’occhiolino all’amico.

*

Sminchiocisteina, cazzinlculedrina, salfighina, mescola, gira gira cuoci togli…conta conta, e la nostra droga per il grembo degli dei è bell’e pronta.
Che coglione che sei, ma ti concentri davvero così?
Sì, sì sorellina…ma silenzio che sei di fronte a Dio nel bel mezzo della creazione, porta rispetto.
Hai aggiunto un piccolo tassello a una mia creazione e ne sei già diventato il Sommo creatore?
Piccolo tassello ma essenziale. La tua era una sostanza morta, io le ho dato vita…”Io solo sono riuscito a scoprire il segreto di infondere la vita, macché, anche di più: IO, PROPRIO IO, SONO DIVENUTO CAPACE DI RIANIMARE NUOVAMENTE LA MATERIA INANIMATA! SI PUO’ FARE!!! Aigor, diventeremo ricchi.
Che idiota! Ma non canterei vittoria troppo presto, occorrono altri test Dottor Frankestein.
Che palle che sei Aigor, che palle.

*
Presentazione di LAP all’ora del tè

Pochi giorni dopo.
Buonasera a tutti. Io e il mio socio abbiamo apportato le ultime modifiche alla sostanza che ci avete aiutati a testare. Sinteticamente non è cambiato un granché. Sembrerebbe più stabile e in questo modo le ripercussioni negative dell’inconscio dovrebbero essere di minor entità anche se questo aspetto, come ben avrete capito, è soggettivo e comunque il mondo dei sogni è appannaggio dell’inconscio e quindi una pacata accettazione è, a mio modesto parere, il modo migliore per affrontarlo/sopportarlo.
Disse Haru nel salotto di casa sua di fronte alle “cavie” che si mostravano molto interessate alle sue parole pur rivolgendo veloci sguardi preoccupati al socio di Haru che intanto, mentre ascoltava il discorso si fece stranamente silenzioso e pensieroso. A testa bassa grattandosi la nuca per poi alzare improvvisamente la testa come colto da una folgore, La sostanza sembrerebbe, la sostanza parrebbe, forse, anche se…la sostanza…insomma, miei piccoli topini da laboratorio, qui si parla di inconscio ma anche di piena realizzazione del razionale, far rientrare nel razionale ciò che prima non lo era... Comunque è vero, le “trappole dell’inconscio” nei sogni sono più “toste”. Tutto giusto, tutto corretto come sempre quando parla la mia sorellina del sol levante, ma aiutiamoci in qualche modo. Le parole sono importanti. Gli esseri umani hanno bisogno di certezze, di definizioni. Al diavolo i condizionali e al diavolo la “sostanza”, come la chiamiamo tutti o peggio ancora la “droga” come l’apostrofa il nostro anacronistico Lord – il Lord sbuffò annoiato mentre il professore indagò il volto di Haru con noia e disagio come a dire, Ci risiamo, e il resto degli invitati, delle cavie rimbalzava il proprio sguardo dal viso di Haru a quello di Jasper con eccitazione.
Sentite, sentite. Jasper va allo stereo e schiaccia play.
Ti prego, non le tue musiche da squilibrato.
Non ti preoccupare vecchio trombone, questa roba è in puro stile british come piace a te.
Nell’ampia sala della casa di Haru cominciarono a suonare in successione le due canzoni dei Queen che i due ragazzi ascoltavano mentre ultimavano la preparazione della sostanza: In the lap of the gods e In the lap of the gods…revisited.
Avete sentito? L’argomento è lo stesso ma le due canzoni sono molto diverse. Ma si parla di un grembo. Del grembo degli dei. La cacciata dall’eden, la mancanza del conforto. Il grembo è malinconia e godimento. La tana scalda ma eccita allo stesso tempo. LAP, ecco il nome della nostra creazione. Ascoltando queste canzoni è nata e da queste è giusto prendere ispirazione per darle un nome. È perfetto: LAP. In tutti i suoi significati, non convenite?
Jasper era in stato di grazia. Per nulla fastidioso e quasi alla ricerca di consensi. Ovviamente tutti sapevano bene che non gli interessassero consensi ma era comunque meglio dei soliti insulti e della sua pesante alterigia.
LAP: il grembo. Il mondo dei sogni è il nostro grembo, la nostra culla. Quello in cui ci troviamo, che ci accoglie e di cui possiamo diventare i padroni – sguardo dubbioso tra Haru e il professore.  LAP: il giro. Il controllo dei sogni ci fa compiere un giro attorno al nostro io, frequentando luoghi prima inaccessibili; ma questo significato è il meno indicativo e interessante. Sentite gli altri e approfittate della vastità delle mie conoscenze. Cazzo, Haru, Herr professor, Lord, dovreste essere voi ad avere spunti linguistici…ma se non mi muovo io qui non si fa altro che prendere polvere – sguardo tra i presenti, Ecco è tornato il vero Jasper –, ma andiamo avanti. LAP: leccare, lambire, bagnare. Insomma figlioli, devo spiegarvi io in che modo i significati di questa fantastica parola calzano alla perfezione con gli effetti che produce? Sentite lap, lap, lap…
Jasper andò avanti per diversi minuti a ripetere LAP, mimando sesso orale e dicendo quanto l’onomatopea della parola LAP rispecchiasse perfettamente l’atto di leccare. Nel mentre gli invitati avevano smesso di dargli attenzione e cominciarono a parlare tra loro. Nonostante i modi, Jasper aveva convinto tutti. La sostanza che tanto aveva attratto il loro interesse aveva finalmente un nome: LAP.

11 Scheletri - Tamun



Non ne parlava all’inizio e in questo era simile a tutti. Essere lucidi nei propri sogni è spesso imbarazzante o comunque una sensazione difficilmente condivisibile. Tamun non capiva i suoi sogni. Anzi, il suo sogno, poiché l’argomento sembrava essere sempre lo stesso: la sua cameretta e gli scheletri del cane che aveva posseduto e del cucciolo che non ebbe il tempo necessario per nascere. Tutto questo era ben chiaro. Era vero, lo aveva vissuto. Così come il suo periodo dark e la prematura morte del padre (fatto che la accomunava con Haru). Ma ciò che succedeva dopo? Quelle figure così sconosciute ma familiari?
Sogno dopo sogno quegli scheletri sembravano parlarle o forse era la sua vita a parlare con loro.
Quando cominciò a descrivere questi sogni, sollecitata dal gruppo dell’ora del tè, Haru capì che c’era qualcosa di cui non parlava.

Una mattina svegliandosi la trovò in lacrime. Le si avvicinò. Mutandine indaco, pelle leggermente ambrata e l’elegante seno che si affaccia, il prominente naso che, Haru lo aveva finalmente capito, era lì solo per ricordare quanto tutto il corpo di Tamun fosse meravigliosamente armonioso. Andò a consolarla, Perché non mi racconti qualcosa di più, è bello e utile condividere.
Tamun si girò e Haru si sorprese, erano lacrime di felicità. Prese in mano il foglio che la ragazza aveva appena finito di scrivere, raccolse al volo la penna sfuggitale di mano prima che cadesse (era la sua stilografica preferita) e chiese, E’ il tuo sogno?
No, è il racconto dei miei sogni.

*
Il sogno di Tamun

Era la sua cameretta. L’aveva sognata e ottenuta dopo tanti anni di lagnose richieste coi genitori. E darle quella notizia, cioè che avrebbe avuto la sua camera, fu l’ultima cosa che il padre le disse. Morì d’infarto pochi giorni dopo infatti. L’avrebbe ricordato sempre commossa. Si erano voluti bene, era stato come per molte bimbe, il suo primo amore. Aveva saputo della sua malattia quando era ormai abbastanza grande per capirlo. Il fratello ormai libero anche lui dalla compagnia fastidiosa della sorella minore non l’aiutò mai nella comprensione del lutto. I loro mondi andavano allontanandosi sempre più. Anche la madre non le giovò nel sopportare quella terribile esperienza, seppur comune a tante persone.
Fu da sola e nella sua nuova cameretta – il suo nuovo mondo – che imparò a crescere ma, quando finalmente si sentiva di aver accettato la vita nei suoi chiaroscuri, perse nel peggiore dei modi quello che al momento era il suo affetto principale. Morì infatti la sua cagnetta ancora prima di partorire il suo unico cucciolo.
Piombò in una depressione che i suoi quindici anni sembravano non sopportare. Anche la sua camera ne risentì. Coprì la zigrinatura del vetro con un piccolo plaid nero. Sparirono i poster delle boy band e comparvero quelle di gruppi con teschi tatuati e i cui cantanti erano morti suicidi o lì lì per suicidarsi. Il suo mondo aveva definitivamente perso quella nota verde che era passato dal chiaro della speranza allo scuro della consapevolezza ma comunque verde. Ora tutto è nero. Nera la sua porta, sempre chiusa a chiave, nera la sua tinta, il suo rossetto e le sue unghie. Bianca la sua faccia. Una cazzo di gotica sfigata, la etichettava il fratello che mal sopportava la teatralità dell’età lirica della sorella che faticava anche a comprendere essendo quattro anni più grande.
Ma quella uniforme nera la fece d’incanto smettere di soffrire. Si convinse che quel nero assorbisse il dolore.
Sentiva spesso però una forte ansia al pensiero degli scheletri di quei cani (cagna e piccolo) che sua madre e suo fratello avevano seppellito con la fretta di togliersi dalle scatole quel momento. Le stesse facce che ricordava dei genitori quando andarono a firmare dal notaio per la loro nuova casa. Un fastidio necessario; la stupida convinzione di riuscire a liberarsi della sofferenza in questo modo mentre lei avrebbe voluto onorare quelle morti e forse proprio per questo il motivo del suo abbigliamento: onorare il lutto. E lei piangeva e piangeva senza incontrare quel briciolo di tristezza che avrebbe reso credibile le forzate cure di madre e fratello. Quest’ultimo si era addirittura lasciato scappare un, Dai sono solo cani. Gli avrebbe sputato in faccia. 

*
Avevano seppellito mamma e cucciolo insieme dato che la cagna era morta prima di partorire un cucciolo a sua volta morto. Così staranno uniti per sempre.

*

Passarono settimane e forse anche parecchi mesi. La ragazza continuò la sua vita come una liceale qualsiasi. Prediligeva materie piuttosto che altre. Fumava spinelli ma solo per compagnia e partecipava senza fervore a molte manifestazioni studentesche. Aveva alcune amiche. Quelle poche ma buone che ti resteranno attaccate per sempre, come gli scheletri dei suoi cani, pensava. Ebbe un fidanzatino, ma durò poco rimanendo vergine. Conobbe poi l’amore, quello vero. Si dimenticò anche della sua verginità, dei suoi cani e pure di suo padre. Ma questa relazione durò anche meno.
Sua madre si era intanto risposata e il fratello era all’università e prometteva bene, dicevano tutti.
Un giorno, tornò di colpo ad essere in ansia per quei due scheletri incastrati l’uno nell’altro. Per l’indifferenza del fratello e la faccia idiota della madre. Quella madre che non era stata mai utile nell’affrontare i lutti della propria esistenza. Era semplicemente in imbarazzo a causa della sua inutilità. Non dovrebbe essere in questi momenti che i genitori dovrebbero svelare quei trucchi che servono per affrontare la vita?
Ma si convinse che non ci sono trucchi. Durante l’esistenza si capisce poco per volta che partecipiamo ad un concorso truccato. Nessuno vince. Tutti perdono. La maturità serve solo per imparare questa lezione. Una lezione che però non si può tramandare; una specie di maledizione.
Quegli scheletri erano tornati a chiamarla.
Le dava un fastidio enorme. Quando era più giovane questo pensiero la terrorizzava, ora si rodeva il fegato per sentirsi ancora così debole. Nonostante la sua corazza nera.

*

Una di quelle sere dopo alcuni fatti si persuase che mamma e cucciolo volessero stare insieme ma ognuno con l'indipendenza del proprio corpo.
Riesumò i corpi e rimase a lungo a guardare quelle ossa incastrate l’una con l’altra. E poi estrasse delicatamente ma con mano fredda e ferma il cucciolo dallo scheletro del bacino della madre. Finalmente era nato.

*

Passò tanto tempo e un giorno, ormai donna, decise per qualche motivo che non ricordava di allontanare i due scheletri. Prima in due contenitori diversi ma adiacenti poi in due camere diverse.

*

Passarono altri anni e LEI arrivò nuovamente.
Mancava da parecchio. Era un po' invecchiata. Ora era una bella donna. Due bimbi con lei. Maschietto e femminuccia: sono eccitati, non parlano, ma non hanno paura. La mamma apre un armadio indicando la figlia e dice qualcosa al figlio che immediatamente esce dalle camera indicando la vecchia mensola sopra il suo letto da bambina, in nostra direzione! Arrivano di corsa entrambi coi nostri scheletri e ci adagiano in una teca di vetro nuovamente vicini. Prima di uscire la mamma chiama i figli per far loro vedere come aprire la teca e tirarci fuori, nel caso...

In mezzo c'erano stati tradimenti, morte e dolori senza fine. Ma poi passa tutto e si scopre che è un po' quello che capita a tutti. E soprattutto che non ti tocca più. Appare tutto estraneo. La giovinezza.
Eccoli eccoli che tornano ancora, i suoi figli.  Allontanano e riuniscono i nostri due scheletri in una danza senza fine.

*
È finito, disse Tamun disperdendo le lacrime nel suo sorriso.
Scrivi molto bene, rispose Haru riuscendo a evitare di chiederle chi stesse parlando nel finale del suo sogno. Pensò che forse si era immedesimata nei due scheletri, che quei due scheletri impersonificassero loro; pensò che lei scrive, lei è un po’ artista, ma pensò soprattutto che fosse il caso di finire di pensare perché quando è con lei non serve o semplicemente può non farlo. 

venerdì 26 agosto 2016

10 I sogni di Haru e Jasper




La sostanza che Haru e Jasper hanno creato è stata diverse volte ricalibrata per cercare di renderla più stabile e gestibile. Questa ottimizzazione è cessata nel momento in cui i due ragazzi si son resi conto che il problema principale non era risolvibile: la gestione dell’inconscio. Come giustamente denunciato dal Lord, ai primi utilizzi, la sensazione è tutt’altro che piacevole in quanto ci si ritrova lucidi in un ambiente appannaggio dell’inconscio. Tutti i lati più reconditi e quindi spesso più dolorosi della nostra esistenza emergono. Le paranoie prendono vita; ma, invece che viverle attraverso la patina di confusione che un normale sogno si porta dietro, siamo lucidissimi.
Dopo un po’ si impara qualche trucco. Ognuno ha il suo. Haru vuole capire i suoi mostri, non ne ha paura e non ha mai creduto che la sostanza gli regalasse il paradiso in terra come fa Jasper che ha semplicemente affogato i suoi mostri mescolando la sostanza con altre droghe o trovando dei diversivi al suo inconscio, il professore ha trovato grosso giovamento utilizzando pratiche di rilassamento e meditazione yoga, il Lord invece è stato l’unico a denunciare gli effetti negativi della sostanza pur ammettendo il fascino delle sue potenzialità. Il Lord è come un topo impaurito ma affamato. Non ha vergogna della sua natura e non ha moti d’orgoglio che gli impediscano di chiedere aiuto o nascondersi. Chissà quale sarà stato il suo stratagemma e se ne avrà mai trovato uno. La cosa che davvero sembrava comune a tutti è il non parlare delle proprie esperienze (o essere molto evasivi) o mentire a proposito. A questa ipotesi arrivò Haru (non Jasper, lui non si è mai interessato a un problema non suo) dopo molte discussioni col professore e in certi casi addirittura col Lord. È un po’ come il sesso: spesso chi è all’inizio tende a non parlarne troppo o a esagerare o mentire. La sostanza promette una sorta di paradiso in terra e averne paura vuol dire ammettere di avere troppe debolezze e scheletri nell’armadio.
Quando si comincia a comprendere il funzionamento della situazione in cui ci si ritrova, quando si smette di vivere incubi lucidi e si riesce a interagire meglio ci si rende conto di quanto sia difficile se non impossibile controllare ciò che nel sogno è fuori da noi, ciò che è di contorno, lo scenario, la scenografia del nostro sogno. Ci si concentra sempre e solo su se stessi. Dopo un po’ risulterà sempre più facile controllare il corpo; volare, saltare o addirittura liquefarsi e ricomporsi. Sarà semplice fare mangiate luculliane, usare razzi spaziali e soprattutto far sesso ma sempre cercando di non perdersi nello scenario che ci fa da contorno. L’inconscio infatti tende a renderlo tanto confuso da farci perdere lucidità, controllo e quindi serenità. Quindi, prima lezione del novello onironauta è NON GUARDATI ATTORNO.


*

Haru

Ma Haru ha sempre trovato il suo intimo molto triste e desolato (oltre che banale) e per questo motivo più di una volta ha provato a guardarsi intorno. Le creazioni dell’inconscio facevano paura anche a lui, ma non troppo e a volte riusciva a fermarle: un altro paesaggio desolato, il nulla. Foschia e poco più.   

Il mondo dei sogni di Haru è semplice. Stereotipato e di contorno. Una cartolina.
Dopo i primi esperimenti si accorse che nei suoi sogni lucidi il pensiero era totalmente occupato dalla madre morente. Una madre con cui non riusciva a parlare. Sconfortante.  
Passeggiava con lei per immensi campi, sopra scogliere a strapiombo sul mare, o sulla spiaggia. Si rendeva conto che doveva lasciarla andare ma non ci riusciva. Lo sguardo della donna era eloquente e Haru non riusciva a far altro che tenerla per mano e concentrarsi per evitare che l’inconscio prendesse il sopravvento allontanandola e dovendo poi tornare a concentrarsi per ritrovare nuovamente la madre nel caos dell’inconscio (le lezioni da preparare, la sostanza e le difficoltà della preparazione, il comportamento sempre più intollerabile di Jasper, il corpo di Tamun, i discorsi del professore, il Lord…). Aveva capito che chiederle risposte era inutile perché lui non le avrebbe comprese. La voce di sua madre arrivava da troppo lontano. Sembrava di ascoltare una persona che parla sottacqua. Non la comprendeva e non voleva inquietarsi né inquietarla.
Inquietarla???
Ecco, pensare che quel sogno potesse davvero inquietarsi lo trovava davvero un pensiero infantile oltre che ingenuo.
Poi, un giorno, ebbe un’idea. Prima di coricarsi bagnò le labbra della madre con la stessa sostanza che stava per assumere lui e quel velo di incomunicabilità sparì. Era lucido come prima, il paesaggio continuava a essere una trappola da evitare ma finalmente capiva la sue parole; poche a dir il vero perché nonostante la lucidità il parlare e soprattutto l’ascoltare non era affare semplice. Ma “viveva” sua madre. E non era solo per quelle poche frasi che riuscivano effettivamente a scambiarsi ma per il riuscire a stare abbracciati senza disagio, potersi sorridere e, quando ci riusciva, parlare di quelle cose che solo madre e figlio in intimità possono dirsi. Scorpacciate di conforto e dolce malinconia.

Haru, basito da questa nuova situazione, era comunque pieno di dubbi: C’è una connessione col fatto che io le abbia dato la sostanza o è un caso dovuto al fatto che sto imparando a usarla? Il cervello di mia madre ha un’attività paragonabile a quella di una persona sana… e quindi? Ora capisco mia madre perché anche lei è lucida nel suo sogno? È mia madre quella con cui parlo nei miei sogni? Ma che assurdità è? Di conseguenza ci stiamo sognando contemporaneamente? Bah... Il solito problema di capire cosa sia reale da ciò che non lo è.
L’ipotesi della suggestione risultava sempre la più credibile.
In ogni caso Haru scoprì in seguito che la sua risposta non poteva essere trovata nei suoi sogni, nel rapporto con sua madre. Qualsiasi interazione con lei poteva essere una sua costruzione mentale, per molti versi infatti madre e figlio non sono altro che una regione dei rispettivi animi, luoghi dei propri pensieri. Fu facile trovare la soluzione alle sue domande, ma indagando i sogni degli altri. Tanti piccoli indizi che crearono la più semplice delle risposte. Come quelle poche frasi che spesso la madre ripeteva ad Haru nei sogni: Guardati intorno! Un invito materno, deciso, accogliente e amorevole, ma sfigurato da una forte preoccupazione che le attraversava il viso e il collo e che spesso sfociava in quell’altra frase pronunciata con terrore, a denti stretti, e col viso pieno di lacrime che lo faceva svegliare di colpo terrorizzato: Ci sta consumando tutti!
Chi!!? Cosa!!? Mamma!

*
 
Jasper

Servì poca pratica. Bastava così poco a tutte quelle cavie che lui e Haru si erano scelti per imparare a utilizzare la sostanza figuriamoci a un individuo così avvezzo all’utilizzo delle sue facoltà cerebrali quanto poco sarebbe bastato per fare di quei sogni il parco giochi per adulti che tanto si era immaginato.
E così effettivamente fu.
Non fece come Haru che gli sembrava intimidito e pauroso anche in questa circostanza. Né come il professore con le sue ridicole pratiche yoga di concentrazione per migliorare il controllo dei sogni. Lui non ne aveva bisogno (forse anche per le svariate esperienze con gli allucinogeni). Sentiva di controllare quel mondo, di averlo in pugno, di tenerlo per le palle, disse più volte.
In ogni caso essendo il co-inventore della sostanza insieme ad Haru, essendo l’essere umano più intelligente della zona (sempre insieme al nemico/amico Haru) ed essendo soprattutto il più disinibito, destrutturato, aperto, coraggioso e cazzuto essere umano di questo mondo, era convinto di dover incarnare il ruolo del supereroe, del maestro, master, guru, dio, di questo nuovo mondo che si parava dinnanzi. Era convinto di possedere un’alchimia di elementi rarissima: un secchione, super intelligente che riesce ad essere allo stesso tempo una persona brillante, sagace, invidiato da maschi e adorato dal mondo femminile. Tutti quelli che lo denigravano semplicemente si difendevano perché lui li trattava con evidente disprezzo. Tutto ciò e molto di più pensava Jasper di sé (oh quanti gli piaceva pensare a sé!), anche se non sempre i risultati erano così mirabolanti.
Così, la prima volta che si trovò lucido nei suoi sogni si concentrò. Capì immediatamente la difficoltà: questo posto è creato dall’inconscio e anche da lucidi è difficile averne un vero controllo. Motivo per cui molti sono rimasti terrorizzati da quest’esperienza. Il paesaggio e gli oggetti intorno a noi cambiano continuamente e cercare di “fissarli” li fa cambiare ancora più velocemente. Tutta questa apparente impotenza fa nascere un’ansia che tramuterà il sogno in un incubo in cui la lucidità altro non farà che dargli contorni ancora più terrificanti. Anche le sensazioni di pesantezza corporea non sparivano subito. Trabocchetti, fantasmi per piccole cavie come voi, disse Jasper agli invitati all’ora del tè da Haru in cui le “cavie” raccontavano le loro esperienze. Pesantezza corporea? Io volo e ho la forza di un supereroe nei miei sogni. Lo scenario cambia? Non importa, quello scenario è finto, ciò che non cambia è nella mia testa, aggiungeva sprezzante Jasper toccandosi il pacco e sogghignando.

Grazie a questi presupposti, gli ci volle poco per padroneggiare questi sogni. È vero, lo scenario cambiava continuamente; è vero, anche lui era a volte preso da moti angosciosi, ma Jasper non era minimamente impaurito. E così, se mentre si trovava a far sesso con tre donne contemporaneamente da una vagina usciva fuori un mostro che gli strappava il membro a morsi, o se una delle sue partner sessuali si trasformava in sua nonna, lui non faceva altro che imporsi un sorriso arrogante e tornare a controllare il sogno assecondando l’inconscio che, come ben sapeva, non riesce a rimanere fermo per molto.
Vogliamo vedere chi si stufa per primo? Pensi che io possa davvero scandalizzarmi per così poco? Pensi davvero che io possa scandalizzarmi!?? Si ripeteva prima di assumere la sostanza o durante il sogno stesso. E così il giovane Jasper poteva finalmente farsi un baffo delle regole umane, della decenza, delle piccole e stupide paure del suo inconscio e si scopava la nonna, e poi un ospizio intero e, immediatamente dopo, questa situazione diventava eccitante perché si ricordava di quella signora attempata, amica della madre, che tanto lo eccitava da piccolo.
L’inconscio è come un cane, basta allungargli un premio e fa ciò che vuoi, lo porti dove vuoi, si ripeteva a mo’ di mantra Jasper. Quei mostri che gli avevano strappato il membro venivano ora estirpati dai corpi delle sue ormai infinite amanti con le sue mani. Li guardava e gridava loro in faccia riuscendo ad essere più mostruoso dei demoni del suo inconscio.
Lo scenario attorno cambiava senza che la sua sagoma e le sue azioni, le sue volontà ne fossero minimamente toccate. A volte tornava a osservarlo, a guardarsi intorno; con aria di sfida, anzi con disinteresse: indecifrabile, montagne di simboli, immagini, colori, forme. Lo guardava senza esserne avvolto. Come a guardare una tv guasta, uno schermo a cristalli liquidi impazziti. Non ne aveva paura e non gli dava più capogiri. Se una fiamma veniva a ruggire sbavando con denti marci e incandescenti davanti alla sua faccia Jasper, con alterigia, se ne burlava. Allungava un dito e simulava dolore. Lo toccava per più tempo, sentiva effettivamente un dolore lancinante – mille frecce infuocate nel suo corpo e successiva e ovvia visione di San Sebastiano – che però cessava immediatamente. Aveva imparato a controllarlo e questa sensazione di potere era di gran lunga la sua preferita: l’inconscio dura poco.
Ora voleva costruire il suo ambiente, la sua scenografia. Sentiva di poterlo fare.

Molto spesso si immaginava di camminare in una specie di nuvola piatta (oggetti grossi, comodi e con colori neutri sono più facili da controllare) che poteva somigliare a un enorme letto ricoperto da donne di tutti tipi che lo guardavano mugolanti di piacere. Intervallava le sue prestazioni sessuali con avventure violente contro i nemici che l’inconscio gli poneva di fronte: una paranoia, un troll o una tigre. Vestito da una semplice mutanda, con un braccio trasformabile in qualsiasi arma volesse e un missile nucleare tra le gambe. Nessuno scudo, non ne aveva bisogno. Tutto ciò che osava sfidarlo sarebbe stato inevitabilmente sconfitto.
La cosa che più lo infastidiva era di non riuscire ad avere orgasmi. Ma si rendeva conto che il godimento sessuale c’era comunque e che l’orgasmo non arrivava per le continue distrazioni o perché forse ne esisteva un tipo diverso e più “alto” in questo mondo e, in questo caso, lui sarebbe sicuramente riuscito a raggiungerlo. Sarebbe stata solo questione di tempo. L’ennesimo mostro da sconfiggere, solo un po’ più forte, anzi, forse solo nascosto meglio; perché ormai si rendeva conto che il vero mostro era lui e quelli prodotti dall’inconscio per mettergli i bastoni tra le ruote altro non erano che piccoli escamotage privi una vera forza. Li vedeva (questi mostri, queste difficoltà) come pulcini di fronte a quel diavolo che era lui. Vedeva le sue vittime, i suoi conflitti cedere all’inattaccabilità del suo potere, il suo potere non aveva difatti limiti né confini. Questo pensiero lo eccitava fisicamente forse più delle donne stesse.

*

Serviva distrarsi.
Pensò di aggirare il problema, di scovare il mostro e scoprirlo pulcino.
Durante un sogno stava lottando contro l’esercito dei Detrattori (lo aveva chiamato così perché era composto da tutte le persone che in questa vita osavano o avevano osato metterglisi contro a cui aveva dato nel sogno dei super poteri per combattere contro di lui) ma continuava anche a far sesso con un numero imprecisato e imprecisabile di ragazzine avvenenti mentre una parte del suo fantastico cervello portava avanti la battaglia e la costruzione del suo impero.
Lo stava facendo apposta. Lo sapeva. Voleva perdere o essere lì lì per perdere, ancora non lo sapeva bene. E ci stava riuscendo e non sapeva neanche il perché. Sentiva i suoi nemici diventare sempre più insostenibili e decise che era arrivato il momento di ribellarsi: si sarebbe concentrato e con un solo grido avrebbe polverizzato l’esercito dei Detrattori; di colpo lo sentì: l’orgasmo. Lontano. E appena colto, scoperto, si volatilizzò. Jasper gridò dalla gioia, lo aveva trovato! ma, constatando che si era dissolto si infuriò: Torna immediatamente qui! Decise quindi di vendicarsi su quelle ragazzine che non riuscivano neanche a compiere il loro dovere ma d’improvviso tutto scomparve e si trovò di fronte quello che in seguito chiamò “il Cacciatore” con la canna del fucile piantata sulla sua fronte.
Bum! Sveglio.
Ma non è cosa da Jasper demoralizzarsi, anzi era contento di averlo trovato e pensava anche di aver capito come ritrovarlo. Doveva umiliarsi essere in difficoltà e quindi umiliare a sua volta, vendicarsi o una cosa del genere. Qualcosa di non strettamente sessuale.
E infatti un giorno, ripetendo la solita battaglia contro l’esercito dei Detrattori ci riuscì. Dilaniato dai colpi dei suoi nemici che lo stavano finendo, che laceravano le sue carni, mentre le ragazzine lo schernivano lo percepì nuovamente. L’orgasmo. Lontano. Questa volta non si fece cogliere impreparato. Non trasalì. Ma rimase concentrato nel suo dolore e nell’imminente vendetta, senza far nulla. Fu l’orgasmo a trovarlo nuovamente mentre vide una figura avvicinarsi per poi scappare proprio durante il suo orgasmo.
Una vertigine e una sensazione tanto forte da dargli la sensazione di poter fagocitare l’universo intero.
Dove credi di scappare?
Si apre una piccola botola che dà su un corridoio poco illuminato che Jasper percorre. Lo sente scappare, E’ il Cacciatore! Chi è il Cacciatore? Eccolo. C’è un muro non puoi scappare! Sei un cacciatore con tanto di cappellino con visiera in pelle e fucile in spalle, ma sei minuscolo! disse prendendolo in mano e stritolandolo come si fa con una zanzara. Il sangue dalle sue mani sgorgava all’unisono col suo sperma. Pensò che Dio non fosse altro che una sorta di orgasmo continuo e incosciente. Questo mondo è infinito e privo di coscienza, si disse, e qui e ora ho imparato a essere Dio!

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Dopo questo evento Jasper imparò a concentrarsi sui dettagli senza che l’inconscio gli facesse perdere il controllo. Non doveva più ricostruire il suo ambiente, il contesto dei suoi sogni, il contorno ad ogni sogno. Appena si “svegliava” in un sogno, il solo pensarlo gli faceva trovare il suo impero. Gli orgasmi continuarono a essere un “lavoro difficile” a cui decise di non impegnarsi più di tanto. Il Cacciatore gli dava ancora fastidio ma per il solo fatto che uccidendolo era convinto di aver eliminato quella strana e irritante presenza dal suo inconscio.
A parte questo piccolo intoppo ogni sfidante periva tra le sue mani trasformandosi in sabbia che Jasper godeva a far cadere. Poco per volta, imparando a controllare e manipolare a suo piacimento la scenografia, quello che dapprima appariva come un semplice ed enorme letto diventò una camera da letto attrezzatissima di ogni comfort immaginabile e non. Poi un parco con fontane piscine, aree relax, aerei e veicoli ultra veloci comandabili telepaticamente, poi tutto ciò diventò l’enorme terrazzo del suo palazzo, dal suo castello, del suo regno. Ogni suo sogno in breve si trasformava nel suo impero, quel mondo in cui lui era più di un re, più di un dio. Tutto era preorganizzato dal suo inesauribile ed eccezionale cervello e le fondamenta di questo mondo erano tutte quelle vittorie, tutti quei mostri sconfitti, tutta quella sabbia. Sabbia su cui, verso la fine del sogno, il suo regno inesorabilmente scivolava, crollava. Molte volte si trovava in piedi sulla torre più alta del suo castello con le braccia incrociate ad assistere al crollo del suo mondo, a scivolare verso il basso, come su una tavola da snowboard. Una lenta, rovinosa e fragorosa deriva che lui viveva senza alcuna remora, Domani andrà ancora meglio, imparerò a controllarlo sempre di più, pensava mentre scivolava e mentre ormai si stava svegliando. Conscio del fatto di aver già imparato molto e di vivere delle avventure fantastiche con le stesse sensazioni della vita reale. Troppe, troppe vittorie per poter davvero avere paure. Come un bambino al Luna Park. Una vaga, indefinibile ma inebriante sensazione di potere. Senza alcuna frustrazione o paura. Perennemente eccitato.