Non ne parlava all’inizio e in questo era simile a tutti.
Essere lucidi nei propri sogni è spesso imbarazzante o comunque una sensazione
difficilmente condivisibile. Tamun non capiva i suoi sogni. Anzi, il suo sogno,
poiché l’argomento sembrava essere sempre lo stesso: la sua cameretta e gli
scheletri del cane che aveva posseduto e del cucciolo che non ebbe il tempo
necessario per nascere. Tutto questo era ben chiaro. Era vero, lo aveva
vissuto. Così come il suo periodo dark e la prematura morte del padre (fatto
che la accomunava con Haru). Ma ciò che succedeva dopo? Quelle figure così
sconosciute ma familiari?
Sogno dopo sogno quegli scheletri sembravano parlarle o
forse era la sua vita a parlare con loro.
Quando cominciò a descrivere questi sogni, sollecitata
dal gruppo dell’ora del tè, Haru capì che c’era qualcosa di cui non parlava.
Una mattina svegliandosi la trovò in lacrime. Le si
avvicinò. Mutandine indaco, pelle leggermente ambrata e l’elegante seno che si
affaccia, il prominente naso che, Haru lo aveva finalmente capito, era lì solo
per ricordare quanto tutto il corpo di Tamun fosse meravigliosamente armonioso.
Andò a consolarla, Perché non mi racconti qualcosa di più, è bello e utile
condividere.
Tamun si girò e Haru si sorprese, erano lacrime di
felicità. Prese in mano il foglio che la ragazza aveva appena finito di
scrivere, raccolse al volo la penna sfuggitale di mano prima che cadesse (era
la sua stilografica preferita) e chiese, E’ il tuo sogno?
No, è il racconto dei miei sogni.
*
Il sogno di Tamun
Era la sua cameretta. L’aveva sognata e ottenuta dopo
tanti anni di lagnose richieste coi genitori. E darle quella notizia, cioè che
avrebbe avuto la sua camera, fu l’ultima cosa che il padre le disse. Morì
d’infarto pochi giorni dopo infatti. L’avrebbe ricordato sempre commossa. Si
erano voluti bene, era stato come per molte bimbe, il suo primo amore. Aveva
saputo della sua malattia quando era ormai abbastanza grande per capirlo. Il
fratello ormai libero anche lui dalla compagnia fastidiosa della sorella minore
non l’aiutò mai nella comprensione del lutto. I loro mondi andavano
allontanandosi sempre più. Anche la madre non le giovò nel sopportare quella
terribile esperienza, seppur comune a tante persone.
Fu da sola e nella sua nuova cameretta – il suo nuovo
mondo – che imparò a crescere ma, quando finalmente si sentiva di aver
accettato la vita nei suoi chiaroscuri, perse nel peggiore dei modi quello che
al momento era il suo affetto principale. Morì infatti la sua cagnetta ancora
prima di partorire il suo unico cucciolo.
Piombò in una depressione che i suoi quindici anni
sembravano non sopportare. Anche la sua camera ne risentì. Coprì la zigrinatura
del vetro con un piccolo plaid nero. Sparirono i poster delle boy band e
comparvero quelle di gruppi con teschi tatuati e i cui cantanti erano morti
suicidi o lì lì per suicidarsi. Il suo mondo aveva definitivamente perso quella
nota verde che era passato dal chiaro della speranza allo scuro della
consapevolezza ma comunque verde. Ora tutto è nero. Nera la sua porta, sempre
chiusa a chiave, nera la sua tinta, il suo rossetto e le sue unghie. Bianca la
sua faccia. Una cazzo di gotica sfigata,
la etichettava il fratello che mal sopportava la teatralità dell’età lirica
della sorella che faticava anche a comprendere essendo quattro anni più grande.
Ma quella uniforme nera la fece d’incanto smettere di
soffrire. Si convinse che quel nero assorbisse il dolore.
Sentiva spesso però una forte ansia al pensiero degli
scheletri di quei cani (cagna e piccolo) che sua madre e suo fratello avevano
seppellito con la fretta di togliersi dalle scatole quel momento. Le stesse
facce che ricordava dei genitori quando andarono a firmare dal notaio per la
loro nuova casa. Un fastidio necessario; la stupida convinzione di riuscire a
liberarsi della sofferenza in questo modo mentre lei avrebbe voluto onorare
quelle morti e forse proprio per questo il motivo del suo abbigliamento:
onorare il lutto. E lei piangeva e piangeva senza incontrare quel briciolo di
tristezza che avrebbe reso credibile le forzate cure di madre e fratello.
Quest’ultimo si era addirittura lasciato scappare un, Dai sono solo cani. Gli avrebbe sputato in faccia.
*
Avevano seppellito mamma e cucciolo insieme dato che la
cagna era morta prima di partorire un cucciolo a sua volta morto. Così staranno
uniti per sempre.
*
Passarono settimane e forse anche parecchi mesi. La
ragazza continuò la sua vita come una liceale qualsiasi. Prediligeva materie
piuttosto che altre. Fumava spinelli ma solo per compagnia e partecipava senza
fervore a molte manifestazioni studentesche. Aveva alcune amiche. Quelle poche
ma buone che ti resteranno attaccate per sempre, come gli scheletri dei suoi
cani, pensava. Ebbe un fidanzatino, ma durò poco rimanendo vergine. Conobbe poi
l’amore, quello vero. Si dimenticò anche della sua verginità, dei suoi cani e
pure di suo padre. Ma questa relazione durò anche meno.
Sua madre si era intanto risposata e il fratello era
all’università e prometteva bene, dicevano tutti.
Un giorno, tornò di colpo ad essere in ansia per quei due
scheletri incastrati l’uno nell’altro. Per l’indifferenza del fratello e la
faccia idiota della madre. Quella madre che non era stata mai utile
nell’affrontare i lutti della propria esistenza. Era semplicemente in imbarazzo
a causa della sua inutilità. Non dovrebbe essere in questi momenti che i
genitori dovrebbero svelare quei trucchi che servono per affrontare la vita?
Ma si convinse che non ci sono trucchi. Durante
l’esistenza si capisce poco per volta che partecipiamo ad un concorso truccato.
Nessuno vince. Tutti perdono. La maturità serve solo per imparare questa
lezione. Una lezione che però non si può tramandare; una specie di maledizione.
Quegli scheletri erano tornati a chiamarla.
Le dava un fastidio enorme. Quando era più giovane questo
pensiero la terrorizzava, ora si rodeva il fegato per sentirsi ancora così
debole. Nonostante la sua corazza nera.
*
Una di quelle sere dopo alcuni fatti si persuase che
mamma e cucciolo volessero stare insieme ma ognuno con l'indipendenza del
proprio corpo.
Riesumò i corpi e rimase a lungo a guardare quelle ossa
incastrate l’una con l’altra. E poi estrasse delicatamente ma con mano fredda e
ferma il cucciolo dallo scheletro del bacino della madre. Finalmente era nato.
*
Passò tanto tempo e un giorno, ormai donna, decise per
qualche motivo che non ricordava di allontanare i due scheletri. Prima in due
contenitori diversi ma adiacenti poi in due camere diverse.
*
Passarono altri anni e LEI arrivò nuovamente.
Mancava da parecchio. Era un po' invecchiata. Ora era una
bella donna. Due bimbi con lei. Maschietto e femminuccia: sono eccitati, non
parlano, ma non hanno paura. La mamma apre un armadio indicando la figlia e dice
qualcosa al figlio che immediatamente esce dalle camera indicando la vecchia
mensola sopra il suo letto da bambina, in nostra direzione! Arrivano di corsa
entrambi coi nostri scheletri e ci adagiano in una teca di vetro nuovamente
vicini. Prima di uscire la mamma chiama i figli per far loro vedere come aprire
la teca e tirarci fuori, nel caso...
In mezzo c'erano stati tradimenti, morte e dolori senza
fine. Ma poi passa tutto e si scopre che è un po' quello che capita a tutti. E
soprattutto che non ti tocca più. Appare tutto estraneo. La giovinezza.
Eccoli eccoli che tornano ancora, i suoi figli. Allontanano e riuniscono i nostri due
scheletri in una danza senza fine.
*
È finito, disse Tamun disperdendo le lacrime nel suo
sorriso.
Scrivi molto bene, rispose Haru riuscendo a evitare di
chiederle chi stesse parlando nel finale del suo sogno. Pensò che forse si era
immedesimata nei due scheletri, che quei due scheletri impersonificassero loro;
pensò che lei scrive, lei è un po’ artista, ma pensò soprattutto che fosse il
caso di finire di pensare perché quando è con lei non serve o semplicemente può
non farlo.
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